martedì 27 gennaio 2009

Fran

Liverpool New York Liverpool Rio de Janeiro Boston Cork Lisbona Santiago del Cile Rio de Janeiro Antille New York Liverpool Boston Liverpool Amburgo New York Amburgo New York Genova Florida Rio de Janeiro Florida New York Genova Lisbona Rio de Janeiro Liverpool Rio de Janeiro Liverpool New York Cork Cherbourg Vancouver Cherbourg Cork Boston Liverpool Rio de Janeiro New York Liverpool Santiago del Cile New York Liverpool, Oceano, proprio in mezzo. E lì, a quel punto, cadde il quadro.
A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buona notte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave".
Ci rimasi secco.
Fran.
A un quadro mica puoi chiedere niente. Ma a Novecento sì. Lo lasciai in pace per un pò poi cominciai a sfinirlo, volevo capire perché, una ragione doveva pur esserci, uno non sta trentadue anni su una nave e poi un giorno d'improvviso se ne scende, come se niente fosse, senza nemmeno dire il perché al suo migliore amico, senza dirgli niente.
"Devo vedere una cosa, laggiù" mi disse.
"Quale cosa?" Non voleva dirla, e si può anche capirlo perché quando alla fine la disse, quel che disse fu:
"Il mare".
"Il mare?"
"Il mare."
Pensa te. A tutto potevi pensare, ma non a quello. Non volevo crederci, sapeva di presa per il culo bell'e buona. Non volevo crederci. Era la cazzata del secolo.
"Sono trentadue anni che lo vedi, il mare, Novecento."
"Da qui. Io lo voglio vedere da là. Non è la stessa cosa."
Sant'Iddio. Mi sembrava di parlare con un bambino.
"Va bè, aspetta di essere in porto, ti sporgi e lo guardi bene. E' la stessa cosa."
"Non è la stessa cosa."
"E chi te l'ha detto?"
Glielo aveva detto uno che si chiamava Baster, Lynn Baster. Un contadino. Uno di quelli che vivono quarant'anni lavorando come muli e tutto quello che hanno visto è il loro campo, e una o due volte, la città grande, qualche miglio più in là, il giorno della fiera. Solo che poi a lui la siccità aveva portato via tutto, la moglie se n'era andata con un predicatore di non so cosa, e i figli se li era portati via la febbre, tutt'e due. Uno con la buona stella, insomma. Così un giorno aveva preso le sue cose, e aveva fatto tutta l'Inghilterra a piedi per arrivare a Londra. Dato però che non se ne intendeva un granché, di strade, invece che arrivare a Londra era finito in un paesino da nulla, dove però se continuavi sulla strada, facevi due curve e giravi dietro a una collina, alla fine, d'improvviso, vedevi il mare. Non l'aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L'aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: "E' come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: 'banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa' ". Lui, Lynn Baster, quella cosa non l'aveva pensata mai. Proprio non gli era mai capitato di pensarla. Fu come una rivoluzione, nella sua testa.

tratto da Baricco, Novecento

P.S. Ed i libri continuano ad essere magici...

venerdì 3 ottobre 2008

C'è un tempo...

Un tempo per nascere, un tempo per morire.
Un tempo per piantare, un tempo per sradicare la pianta.
Un tempo per uccidere, un tempo per guarire.
Un tempo per distruggere, un tempo per costruire.
Un tempo per piangere, un tempo per ridere.
Un tempo per gemere, un tempo per ballare.
Un tempo per scagliare pietre, un tempo per raccogliere sassi.
Un tempo per abbracciare, un tempo per separarsi.
Un tempo per cercare, un tempo per perdere.
Un tempo per conservare, un tempo per gettare via.
Un tempo per strappare, un tempo per ricucire.
Un tempo per tacere, un tempo per parlare.
Un tempo per amare, un tempo per odiare.
Un tempo per la guerra, un tempo per la pace.

tratto da Coelho, Undici minuti

P.S. Che poi non l'ha scritto Coelho, ma l'ha solo riportato, è tratto da un testo della Bibbia: Ecclesiaste 3:1-15

domenica 14 settembre 2008

Zorba il greco

"(...) Il bambino-incandescente...
(...) E' lo stesso bambino che a dieci anni lesse Zorba il greco perché un'insegnante che amava aveva parlato del libro con entusiasmo e con le lacrime agli occhi. Lui non aveva mai visto lacrime come quelle, né in un bambino né, tantomeno, in un adulto. Erano lacrime di struggimento, una parola che non conosceva (...). A casa sua non c'erano libri. I libri sono un ricettacolo di polvere, sono sporcizia. Il loro posto è nelle biblioteca della scuola. Allora rubò dei soldi dal portafogli di suo padre, il portafoglio sacro, e per la prima volta in vita sua andò a comprarsi un libro. Lo lesse e non capì molto. Non capì nulla, a dire il vero, se non che era più bello di quello che conteneva, perché ruggiva di vita e lo chiamava per nome. Nel suo grande entusiasmo lo divorò per intero. Ci mise quasi un anno, lo terminò esattamente il giorno del suo undicesimo compleanno, come segreto regalo a se stesso.
Non è piacevole, sai. Di nascosto, a prezzo di tremendi mal di pancia che nessuna medicina poteva sconfiggere, finiva una pagina e la tagliava in piccoli pezzi e uguali, che masticava con pazienza e poi ingoiava. Una pagina al giorno, con intervalli di tre ore tra un pezzo e l'altro. Un rito preciso e meticoloso. Ricordi il libro pubblicato da Am Oved e venduto con lo sconto ai dipendenti civili dell'esercito? Quello con la copertina color senape e i bordi rossi? Un pò amara? Trecento e più pagine si masticò, per soddisfare il suo bisogno carnale di parole. Ti dirò, Myriam, ho sempre avuto anche qualche leggero sospetto su di lui. Perchè già allora le sue azioni nascondevano altri motivi e dietro ogni nobile idea si intravedeva la coda di un toporagno. Quindi, forse mangiò Zorba perché le autorità preposte alla sicurezza domestica non scoprissero, nelle loro perquisizioni in fondo al cassetto, un libro nuovo che non aveva alcuna ragione di trovarsi lì. Un libro privo del timbro della biblioteca scolastica.
Cioè: provai a falsificarne uno, certo che ci provai (non mi sottovaluterai fino a questo punto!). Sulla pagina bianca in fondo al libro disegnai un grosso timbro, ma si vedeva che era una falsificazione mal riuscita. Strappai la pagina, ma non potevo gettarla nell'immondizia, e tantomeno nel water. Com'è possibile gettare una pagina di Zorba nel water? Così, senza quasi pensarci, la misi in bocca e cominciai a masticare (lo ricordo benissimo, ora: un sapore strano, sgradevole, di polvere. Carta piuttosto scadente). Tentai anche di scrivere la dedica di un amico, ma non riuscii a contraffare una scrittura sconosciuta e allora ingoiai anche quella pagina. Così, senza volerlo, prese il via quell'idea poeto-gastronomica..."

tratto da Grossman, Che tu sia per me il coltello

martedì 9 settembre 2008

La vostra nota

" - Voi venite qui a cantare non una nota qualunque. Voi venite qui a cantare la vostra nota. Non è una cosa da niente: è una cosa bellissima. Avere una nota, dico: una nota tutta per sé. Riconoscerla, fra mille, e portarsela dietro, dentro, addosso. Potete anche non crederci, ma io vi dico che lei respira quando voi respirate, vi aspetta quando dormite, vi segue dovunque andiate e giuro non vi mollerà fino a che non vi deciderete a crepare, e allora creperà con voi. Potete anche fare finta di niente, potete venire qui e dirmi, caro Pekisch mi spiace ma non credo di avere proprio nessuna nota dentro, e andarvene, semplicemente andarvene... ma la verità è che quella nota c'è... c'è ma voi non la volete ascoltare. E questo è idiota, è un capolavoro di idiozia, davvero, un'idiozia da rimanere di stucco. Uno ha una nota che è sua, e se la lascia marcire dentro... no... statemi a sentire... anche se la vita fa un rumore d'inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più. Portatela con voi, ripetetevela quando lavorate, cantatevela nella testa, lasciate che vi suoni nelle orecchie, e sotto la lingua e nella punta delle dita. E magari anche nei piedi, sì, così chissà che non riusciate ad arrivare una volta puntuali (...).
Pehnt camminava mettendo un piede davanti l'altro come su un invisibile filo sospeso su un canyon profondo quattrocento metri, forse di più.
- Dì, Pekisch...
- Mmmh...
- Ce l'avrò, io, una nota?
- Sicuro che ce l'avrai.
- E quando?
- Prima o poi.
- Prima o poi quando?
- Magari quando diventerai grande come quella tua giacca.
- E che nota sarà?
- Non lo so, ragazzo. Ma quando sarà il momento la riconoscerai.
- Sei sicuro?
- Giuro.
Pehnt tornò a camminare sul filo immaginario. Il bello era che anche quando cadeva non succedeva niente. Era un canyon molto profondo. Ma era un canyon di animo buono. Ti lasciava sbagliare, quasi sempre.
- Dì, Pekisch...
- Mmmh...
- Tu ce l'hai una nota, vero?
Silenzio.
- Che nota è, Pekisch?
Silenzio.
- Pekisch...
Silenzio.
Perchè a dire tutto il vero, non ce l'aveva una sua nota. Pekisch. Incominciava a diventare vecchio, suonava mille strumenti, aveva la testa che frullava suoni infiniti, sapeva vedere il suono, che non è la stessa cosa di sentirlo, sapeva di che colore erano i rumori, uno per uno, sentiva suonare anche un sasso immobile - ma una sua nota, lui, non l'aveva. Non era una storia semplice. Aveva troppe note dentro per trovare la sua. E' difficile da spiegare. Era così, e basta. Se l'era ingoiata l'infinito, quella nota, come il mare può ingoiarsi una lacrima. Hai un bel provare a ripescarla... puoi starci anche una vita. La vita di Pekisch. Una cosa che non è facile da capire. Magari uno ci fosse stato, quella notte che pioveva a dirotto e il campanile di Quinnipak suonava le undici, magari allora potrebbe capire, se avesse visto tutto con i propri occhi, se l'avesse visto, Pekisch, in quella notte. Allora sì. Forse capirebbe. Pioveva che Dio la mandava e il campanile di Quinnipak incominciò a suonare le undici. Bisognerebbe esser stati lì, allora. Lì, in quel momento. Lì. Per capire. Qualcosa di tutto quel tutto."

tratto da Baricco, Castelli di rabbia

lunedì 8 settembre 2008

Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d'incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo nè nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente, e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi penetranti d'ogni sorta, più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.


Costantinos Kavafis

mercoledì 20 agosto 2008

Addio

"Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a suo modo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un'intera notte passata a restituirsi la vita, l'un l'altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l'altra - ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno - nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo (...) sospiri, sospiri nella gola di Elisewin - vellulto che vola - sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica mondi mai visti e laghi di forme impensabili - sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute - chi l'avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano - accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloci e fuggire - fuggire da tutto - vedere lontano - venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l'universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso - questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai - lontani abbastanza - per trovarsi - lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso - grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite - forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano - e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore - tristezza, forse - perfino tristezza - desiderio - quando lo racconteranno non diranno la parola amore - mille parole diranno, taceranno amore (...)
- Ascoltami, Elisewin...
- No, non parlare...
(...)
Come glielo dici, a una donna così, che tu vorresti salvarti, e ancora di più salvare lei con te, e non fare altro che salvarla, e salvarti, tutta una vita, ma non si può, ognuno ha il suo viaggio, da fare, e tra le braccia di una donna si finisce facendo strade contorte, che neanche tanto capisci tu, e al momento buono non le puoi raccontare, non hai le parole per farlo, parole che ci stiano bene, lì, tra quei baci e sulla pelle, parole giuste, non ce n'è, hai un bel cercarle in quel che sei e in quel che hai sentito, non le trovi, hanno sempre una musica sbagliata, è la musica che gli manca, lì, tra quei baci e sulla pelle, è una questione di musica. Così poi dici, qualcosa, ma è una miseria.
- ELisewin, io non sarò mai più salvo.
Come glielo dici, a un uomo così, che adesso sono io che voglio insegnargli una cosa e tra le sue carezze voglio fargli capire che il destino non è una catena ma un volo, e se solo ancora avesse voglia davvero di vivere lo potrebbe fare, e se solo avesse voglia davvero di me potrebbe riavere mille notti come questa invece di quell'unica, orribile, a cui va incontro, solo perchè lei lo aspetta, la notte orrenda, e da anni lo chiama. (...) Come glielo dici, a un uomo così, che ti sta perdendo?
E' la musica che è difficile, questa è la verità, è la musica che è difficile da trovare, per dirselo, lì così vicini, la musica e i gesti, per sciogliere la pena, quando proprio non c'è più nulla da fare, la musica giusta perché sia una danza, in qualche modo, e non uno strappo quell'andarsene, quello scivolare via, verso la vita e lontano dalla vita, strano pendolo dell'anima, salvifico e assassino, a saperlo danzare farebbe meno male, e per questo gli amanti, tutti, cercano quella musica, in quel momento, dentro le parole, sulla polvere dei gesti, e sanno che, ad averne il coraggio, solo il silenzio lo sarebbe, musica, esatta musica, un largo silenzio amoroso, radura del commiato e stanco lago che infine cola nel palmo di una piccola melodia, imparata da sempre, da cantare sottovoce
- Addio, Elisewin.
Una melodia da nulla.
- Addio, Thomas."

tratto da Baricco, Oceano Mare